The Beat Bomb: Storia di un’amicizia tra poesia e “controcultura”

Ascolta qui l’intervista:

Di Annalisa Nicastro

Lawrence Ferlinghetti è stato più di un poeta e un editore: è stato il simbolo di una generazione che ha sfidato il sistema con l’arte e la parola.
In questa intervista esclusiva, il regista Ferdinando Vicentini Orgnani, regista, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, condivide i suoi ricordi personali di un’amicizia che ha attraversato continenti e decenni, riflettendo sull’eredità di una delle figure più carismatiche della Beat Generation.

Ferdinando firma la regia di The Beat Bomb, il docufilm – tributo dedicato a Ferlinghetti dove ne delinea un ritratto intimo, frutto di quindici anni di amicizia e collaborazione, tra San Francisco, la città di Lawrence, e l’Italia, dove amava sempre tornare.
Ferlinghetti, poeta-reporter di un mondo in crisi, ci ha lasciato una lezione che va oltre le parole: resistere, creare, denunciare. Il suo spirito vive oggi nei versi, nel cinema e nel cuore di chi continua a sognare un mondo diverso. A che servono i poeti? I poeti rappresentano ancora l’ultimo baluardo della resistenza nella nostra epoca

Ci racconti il momento esatto in cui hai incontrato Lawrence Ferlinghetti? Che energia si respirava?
Nel 2006, durante le riprese di un documentario prodotto da Cinecittà-Luce (Sessantotto – L’utopia della realtà) sono partito per San Francisco con l’intenzione di raccontare qualcosa sulle radici del movimento studentesco del 68. Hippy, Black Panthers, Beat, hanno anticipato il clima delle proteste per la guerra in Vietnam nelle università, che poi si sono allargate a un tentativo di rivoluzione contro il sistema in mezzo mondo.
Attraverso degli amici comuni sono riuscito a contattare Jack Hirshman (un altro importante poeta che quando insegnava a UCLA ha avuto Jim Morrison tra i suoi studenti) e attraverso di lui Lawrence Ferlinghetti.
A North Beach, il quartiere attorno alla libreria fondata da Ferlinghetti negli anni 50’, c’era ancora un’atmosfera molto speciale nel 2006, che oggi non esiste più. Dietro l’angolo, su Vallejo street, c’è ancora il club dove Janis Joplin si è esibita per la prima volta. Ferlinghetti era un punto di rifermento per tutta la comunità di artisti, musicisti, poeti, intellettuali che gravitavano attorno al Caffè Trieste, a City Lights, al Caffè Vesuvio, e con la sua morte è venuto a mancare un catalizzatore fondamentale. Già era difficile resistere contro la crescita esponenziale degli affitti e del costo della vita a San Francisco (tra i più alti al mondo) ma l’assenza del “dinosauro della Beat Generation” ha dato il colpo di grazia. Ora rimangono solo dei landmark turistici con il Beat Museum, che comunque è un luogo interessante: nel film l’ho visitato seguendo Joanna Cassidy (la replicante Zora di Blade Runner) che, negli anni d’oro, prima di fare l’attrice, era sposata a un medico è viveva nel quartiere.

La libreria City Lights non è solo un luogo fisico ma un simbolo di resistenza culturale. Quando Ferlinghetti ti ha portato nel suo ufficio, come hai vissuto quel momento?
E’ stato emozionante entrare in un luogo dove erano passati tanti personaggi mitici di quella cultura (da Jack Kerouac a Bob Dylan) ma ancora di più la grande disponibilità di Ferlinghetti (che all’epoca aveva già 87 anni). In quel momento non avrei mai immaginato che saremmo diventati amici, che Lawrence sarebbe vissuto fino al 22 febbraio 2021 (quasi 102 anni), che lo avrei ripreso in tante altre circostanze tra San Francisco e Roma e che alla fine, con tutto questo materiale, avrei fatto un film su di lui.

La vostra amicizia ha attraversato continenti, culture e decenni. Come si è evoluto il vostro rapporto nel tempo? Qual è stata la lezione più preziosa che ti ha lasciato?
Credo di essergli stato simpatico da subito per la mia curiosità cronica e poi per la mia disponibilità a fare da ponte con il suo grande amico italiano a Verona, il collezionista di arte Fluxus, Francesco Conz.

Da quel primo incontro nel 2006 ho continuato (come ho sempre fatto sin da bambino) ad andare spesso negli USA e in America Latina, anche per lavoro, e cercavo sempre di passare da San Francisco, dove cercavo sempre organizzare un po’ di riprese con lui, ma a volte non ne aveva proprio voglia e allora non insistevo. Non a caso il materiale raccolto tra il 2006 e il 2013 è molto vario e abbastanza casuale. Dopo il 2013 (si sentiva troppo vecchio) non ha più accettato che lo riprendessi, ma ho continuato comunque ad andare a San Francisco e riprendere i suoi amici e i luoghi significativi di North Beach che si possono vedere nel film. L’ho incontrato per l’ultima volta il giorno del 24 Marzo 2019, il giorno del suo centesimo compleanno.

Se devo pensare alla cosa più importante che la mia amicizia con Ferlinghetti mi ha lasciato (al di là del privilegio di aver passato tanti bei momenti con lui negli anni) credo sia una sua lezione sulla lettura della realtà. Ciò che spesso viene indicato come fantapolitica o complottismo è invece un’analisi chiarissima dell’orrore di una realtà che si fonda sull’economia, sulla corruzione e sulla prevaricazione dei più deboli. In poche decine di anni il nostro mondo è cambiato al punto che, con l’avvento dei social e dei poteri più o meno occulti che dominano e controllano quasi tutto, non è più pensabile un’avanguardia culturale come è stata appunto la Beat Generation. L’unica vera avanguardia possibile è quella dei poveri del mondo, i diseredati che non fanno parte del sistema e quindi sfuggono al controllo. Non c’è niente di più detestabile e ideologico del “negazionismo” che ormai è all’ordine del giorno. Chi la pensa diversamente del “pensiero unico” che il potere cerca di imporre, non viene tollerato, viene visto come un nemico da combattere, nei paesi “democratici” con l’arma dell’escussione e del fango mediatico, attraverso un controllo sempre più capillare dell’informazione. Ferlinghetti in una sua bellissima poesia (che conclude il film) “History of the airplane” parla della lobby delle armi, “the military industrial complex”. Credo che l’aumento esponenziale delle spese militari in tutto il mondo e il sacrificio di milioni di persone ogni anni per le moltissime guerre in corso (quelle silenziose e quelle sulle prime pagine) parli molto chiaro. Di fronte ai mirabolanti profitti delle guerre, la vita umana non ha alcun valore.
Ormai quando sento parlare i politici o i dirigenti delle organizzazioni internazionali che gestiscono il vero potere, la mia unica domanda è: “Ma come fanno a mentire così spudoratamente?” Mi sembra evidente che lo scopo ultimo è lo sfruttamento e il controllo delle masse come nella profezia di Orwell che oggi, seppure in forme diverse, si può dire ormai completamente realizzata.

Nel documentario The Beat Bomb hai voluto evitare il ritratto “aneddotico” della Beat Generation. Come hai trovato l’equilibrio tra il racconto personale del tuo viaggio e l’immensità del personaggio Ferlinghetti?
Il mio viaggio nel mondo perduto della Beat Generation non è quello di uno storico, o di uno studioso di letteratura (visto che si parla anche molto di poesia) ma molto semplicemente quello di un regista che per caso si è trovato al posto giusto al momento giusto e ha cercato di seguire il filo di una bella storia che forse poteva essere raccontata, come poi è stato.

Quando nella mia vita ho incontrato grandi personaggi, ho sempre avuto la conferma che la loro grandezza, in qualche modo, corrispondeva alla loro disponibilità di stare al mondo accanto ai loro simili, senza mai pensare di essere superiori, ma di aver semplicemente portato un contributo, più o meno importante. Diversamente la “grandezza” del personaggio per me non c’è, o comunque viene irreparabilmente offuscata.

Ne voglio citare solo tre che ho conosciuto molto bene e frequentato negli anni: Lawrence Ferlinghetti (poeta), Gonzalo Sanchez de Lozada (imprenditore e politico, due volte presidente della Bolivia), Jannis Kounellis (artista).

Ferlinghetti ha vissuto la sua intera esistenza opponendosi a sistemi opprimenti, come il “military industrial complex”, che hai citato prima. Quanto senti che questa sua visione sia ancora attuale oggi, e come hai cercato di trasmetterla nel documentario?
Più attuale che mai ma, purtroppo, ormai parte di una “controcultura” che ha sempre meno spazio. Nei miei trent’anni e più di lavoro, quasi sempre ho scelto questa parte, pagandone anche le conseguenze, ma il valore ormai sta nella condivisioni di pochi e nella possibilità che questa controcultura si diffonda con ogni mezzo possibile con il passaparola, reale o virtuale che sia. Nel film ci sono molti momenti (oltre al gran finale) dove cerco di far passare il messaggio di Ferlinghetti, anche perché altrimenti il film non avrebbe senso. Se ci si pensa bene la definizione “controcultura” è un paradosso: la cultura dominante ha un tale potere e una tale capacità sempre più capillare di controllo, che è persino in grado di spostare il senso semantico delle parole. E’ la cultura dominante che dovrebbe essere definita “controcultura” perché è contro la cultura, nella falsificazione sistematicamente dei suoi valori più importanti.

Ferlinghetti immaginava i poeti come “reporter dello spazio” per rispondere alle sfide apocalittiche dei nostri tempi. Come traduci questa immagine nella tua visione di regista?
Da regista ho solo fatto del mio meglio per valorizzare la voce del poeta, in questo caso attraverso un’ottima lettura live di Michele Placido. Purtroppo, sempre di più, la poesie, con la grande capacità analitica che i grandi poeti sanno sintetizzare in pochi versi, è un linguaggio seguito da un’esigua minoranza, ancora più esigua nelle nuove generazioni.

Guardando ora al documentario, lo vedi come un tributo, un manifesto politico, o forse un lascito poetico di Ferlinghetti?
Un tributo, un manifesto politico che ho costruito in linea con il lascito poetico di Ferlinghetti che contiene molti decenni di analisi critica di un mondo in costante trasformazione.

Le musiche di Paolo Fresu e le testimonianze raccolte hanno una grande forza evocativa nel tuo documentario. Come hai orchestrato questi elementi per dare forma all’anima di Ferlinghetti?
Tra le sequenze che compaiono in The Beat Bomb dedichi spazio anche uno spettacolo andato in scena al Teatro India con Michele Placido e Giorgio Albertazzi.

Con Paolo Fresu ho iniziato a collaborare nel 2002 con il film su Ilaria Alpi e da allora abbiamo fatto molte cose insieme, The Beat Bomb segna i nostri vent’anni di collaborazione. Al momento stiamo lavorando a un nuovo documentario sull’arte contemporanea. In vent’anni abbiamo trovato un metodo per lavorare al meglio in una reciproca contaminazione che fino ad oggi ha sempre funzionato. Paolo è un grande musicista, un uomo di valore, un amico che sempre si lascia coinvolgere con entusiasmo: il suo contributo

è sempre importante e stimolante. In questa colonna sonora, particolarmente riuscita, lo spirito musicale sembra essere perfettamente in sintonia con la poesia in prosa dei Beat, che sicuramente ha avuto origine proprio dall’improvvisazione del Jazz. Qualche volta, quando ci si affida con fiducia all’istinto, con un po’ di fortuna alla fine tutto torna.

Lo spettacolo Not Like Dante al teatro India del maggio 2008 con Ferlinghetti e traduzione live di Albertazzi e Placido, è stato ripreso per intero e, essendo questo film anche un grande omaggio alla poesia e alla sua forza espressiva, mi è sembrato un degno finale.

Ferlinghetti è stato spesso definito come il “catalizzatore della Beat Generation”, ma la sua visione andava ben oltre. Cosa lo rende un personaggio universale, capace di parlare anche alle nuove generazioni?

La sua capacità di analizzare in sintesi il mondo che cambia, che lui ha vissuto intensamente, dalle rovine di Nagasaki pochi giorni dopo lo sgancio della bomba atomica, all’incredibile stagione dei Beat, alle sue cariche controcorrente alla politica di Obama che, incapace di contrapporsi al “military industrial complex”, ha continuato le guerre di Bush, nonostante le sue promesse.
Una voce indipendente, sempre lucida e originale, consapevole per cultura di molte delle riflessioni profetiche dei grandi pensatori che lo hanno preceduto. Non a caso Ferlinghetti è stato traduttore, editore e grande estimatore del pensiero di Pasolini.

Se Ferlinghetti potesse vedere oggi il tuo documentario, cosa pensi che direbbe?
Credo (spero) che lo apprezzerebbe per la sua onestà prima di tutto, ma anche per una costruzione rigorosa ed elegante (mi faccio dei complimenti da solo) che cerca sempre di non tradire il suo spirito. Questo era il mio intento.

Per Ferlinghetti, le parole avevano il potere di cambiare il mondo. Come il cinema può farsi eco di questa potenza trasformativa?
Potrebbe sembrare che le parole abbiano perso il loro potere catartico nella confusione di tutti gli eccessi che le utilizzano, come quello dell’informazione, dell’individualismo auto celebrativo dei social o della fake news… ma dobbiamo invece sperare che ci aspetti qualcosa di straordinario, se non a noi ai nostri pronipoti o ai loro discendenti. Magari l’intelligenza artificiale che un giorno prenderà il potere, non sarà una forza del male come hanno predetto letteratura e cinema (basti pensare a Blade Runner o Terminator) ma si adopererà per ripristinare i valori della cultura e della convivenza civile. Nel 2097 un Programmatore Capo fuori controllo, invece di impostare il nuovo programma globale di Artificial Intelligence sulle linee di Mein
Kampf
(come gli era stato ordinato), deciderà un impensabile gesto rivoluzionario, riprendendo il pensiero di Gesù Cristo, di Marco Aurelio, dell’Imperatore Adriano o comunque attingendo alle rovine di un qualche antico pensiero illuminato.

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